Chi, in tempi remoti (ma oggi la situazione non è poi così diversa) avesse voluto percorrere la via più breve per raggiungere il mare Adriatico da Roma, non avrebbe potuto evitare di passare per Tivoli. La posizione strategica della nostra città, quasi una porta per l’Abruzzo, assicurava ai Tiburtini il controllo del traffico civile e militare. Ciò arrecava notevoli vantaggi economici, (la via sotto il tempio d’Ercole pullulava di esercizi commerciali ed opifici) ma costringeva far di tutto per evitare che, attraverso altri passi, la città potesse essere aggirata dalle carovane e dalle transumanze (con perdite economiche) o, peggio, da eserciti con intenzioni ostili.
Infatti, se i monti che si estendono a sud di Tivoli e che vanno da colle Ripoli a Monte sant’Angelo in Arcese, costituiscono una barriera naturale che impedisce il transito verso l’Abruzzo, tuttavia tale ostacolo può essere aggirato, oggi come allora, attraverso il passo dello Stonio, lungo l’itinerario sorprendentemente seguito dall’Autostrada A24, evitando così il transito sul tragitto, controllato dalle mura della stessa città, che costeggiando l’Aniene, si snoda per la strada del Colle. Proprio per controllare la via d’accesso alle valli interne – alternativa a quella lungo il corso dell’Aniene, sbarrata dalla stessa città - i tiburtini costruirono una serie di avamposti e fortificazioni sulle cime dei monti che si estendono a sud dell’abitato. Ne sono rimaste sporadiche tracce, costituite da mura in schegge di calcare risalenti al 500 avanti Cristo. Naturalmente, con il tempo e con l’estendersi del domino Romano sull’intero territorio italico, l’esigenza di mantenere quelle linee di fortificazione venne meno e degli avamposti militari tiburtini sorti su quelle cime non rimase se non un confuso ricordo fino a che, dopo molti secoli, scomparso l’impero romano, l’assenza di uno stato unitario in grado di assicurare pace e prosperità all’intera penisola, costrinse i Tiburtini a presidiare nuovamente il passo dello Stonio e costruirvi un piccolo castello, nei pressi dei vecchi avamposti preromani e vicino al monastero che nel frattempo era sorto sul monte Arcese.
Infatti, molto prima dell’affermarsi del potere di Roma, la posizione e la suggestione della più elevata di tali alture - la cui altezza relativa (598 m.slm) è tuttavia accentuata dal fatto che si affaccia come una terrazza naturale sulla sottostante pianura, e che dobbiamo immaginare coperto di boschi come doveva apparire prima venisse devastato da numerosi incendi – avevano indotto i nostri antenati a stabilirvi la sede del culto della Bona dea, un’antica divinità femminile, del gruppo delle grandi madri, intimamente connessa alla vegetazione, alla natura, alla fecondità. Il rispetto per queste divinità era tanto radicato nell’animo di uomini che vivevano a stretto contatto con la natura e che dalla natura dipendevano assai più intimamente di noi, che forme di devozione e di culto sopravvissero ben oltre l’affermarsi del Cristianesimo. Così, una delle preoccupazioni più pressanti della Chiesa nascente, fu quella di sradicare dagli animi delle persone quel misto di religiosità e superstizione, che ancora li mantenevano avvinti a questi arcaici culti di fecondità, in zone agresti.
Per far ciò e per mantenere inalterato il legame ai luoghi che erano avvertiti come impregnati di religiosità, si iniziò una metodica sovrapposizione, agli dei pagani, delle figure divine e dei santi cristiani. Questo fenomeno, diffusissimo (ne abbiamo a Tivoli numerosi esempi) è all’origine anche del monastero sorto sui ruderi del tempio della Bona dea, sulla cima del monte sant’Angelo in Arcese. Originariamente intestato a san Panfilo, il monastero successivamente venne affidato ai Benedettini e dedicato all’Arcagelo Michele, per l’uso invalso nel medio evo, di stabilire posti sulla sommità dei monti. (Mont saint Michel in Bretagna, la Sagra di S. Michele in Piemonte, S, Michele sul Gargano) luoghi di culto dedicati all’Arcangelo.
La chiesa annessa al monastero, doveva apparire riccamente ornata da preziosi pavimenti in mosaico, talmente belli che ..”a paucis Romanae urbis basilicarum pavimentis pulchritudine superentur” come si legge in un resoconto su una gita del Pontefice Pio II (regnante dal 1458 al 1464) sul colle Sant’angelo in Arcese. In seguito, dopo il restauro dovuta ai danni causati da un violento incendio che devastò l’intero monte e gli valse l’appellativo di Monte arsiccio, lo stesso monastero fu dedicato alla Madonna e, quindi nel corso del 1600, definitivamente abbandonato.
Una breve e gradevole escursione sulle orme di Pio II, ci conduce sulla vetta del colle dove, all’ombra delle vecchie pietre e di una rigogliosa vegetazione, non si potrà ammirare né la robustezza di fortificazioni antiche, né lo splendore di pavimenti in mosaico, ma, chi ne ha la sensibilità, potrà avvertire ancora l’arcana presenza del divino.
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